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Viaggi e paesaggi

 Filignano, primavera 1980. Una scelta non facile
 Girovagando nel passato e nel presente: radici irpine
Post  Ins. 06.01.2014

UNA SCELTA NON FACILE
  


Sez. "Viaggi e paesaggi"
ved anche in questo blog
"Storie brevissime"
 Siamo nella primavera del 1980. In quel tempo, noi eravamo alla ricerca di una località non per fare una speculazione, né cercavamo qualcosa di lussuoso, né un luogo per fare bagordi, ma solo un posto per fare una scelta di vita ispirata alla semplicità e all’essenzialità: ci bastavano la salubrità dell’aria e le inebrianti varietà cromatiche e di odori che potevano offrirci i boschi e il sottobosco. Una casa, anche mezza abbandonata, sarebbe bastata, come bastò, ben riscaldata però da un camino, acceso nei periodi dovuti, come scudo per il freddo e con una fiamma da accudire, perché facesse compagnia ai pensieri non del tutto sopiti a sera avanzata.
Come eravamo capitati allora a Filignano  dovemmo spiegarlo varie volte a parenti ed amici, molti dei quali non conoscevano neppure il nome del paese; in seguito, con qualche riserva, essi hanno condiviso con noi quella scelta, ritornando su quel territorio per farci visita.
A prima vista, ai più – bisogna dirlo - la nostra scelta non appariva straordinaria, ma quasi coraggiosa…, per essere stata quella che oggi si direbbe una scelta “fuori mercato”.
Da parte nostra, abbiamo apprezzato chi ha onorato la nostra modesta dimora, con visite ripetute spesso e volentieri, con manifesto ed autentico piacere!
Spesso, tra le tante escursioni fatte in Abruzzo, abbiamo avuto occasione di ascoltare qualche amico che ci proponeva una casa a Scanno, un altro amico ad Alfedena, qualcun altro ancora a Villetta Barrea, e poi ancora all’ingresso di Castel di Sangro o a Rionero sannitico, per fare qualche esempio.
Qualcuna di queste case si mostrava pure interessante, come, per esempio, quella di Scanno; essa era austera e forse anche bella, ma troppo imponente per i nostri gusti; accessibile per il prezzo, ma si prospettava meno accessibile d’inverno, per la risaputa perdurante presenza di ghiaccio e di neve su quelle strade tanto ripide; e poi – fattore non incoraggiante - sembrava troppo distante dalla residenza di Napoli.
Alla fine, per ognuna delle soluzioni emergeva sempre qualche perplessità.
Un giorno, nel solito andare su e giù che facevamo tra Napoli e Pescasseroli, decidemmo di prendere un caffè in un bar sulla via, all’ingresso di Venafro.
Nella sia pur breve attesa della preparazione del caffè, come spesso avviene, il proprietario chiese della nostra provenienza e della nostra meta, apprendendo con sua soddisfazione delle nostre frequenti puntate in Abruzzo. Seppe pure che gradivamo molto la montagna e che eravamo stati sul punto di acquistare una casa addirittura sulle Alpi, dove avevamo un riferimento familiare fin da ragazzi, in virtù della presenza di una sorella di mia madre, la zia Colomba, che aveva casa lì con il marito e i due figli. Non si decise tale scelta solo per la rilevante distanza da Napoli.
Il proprietario del bar, avendo compreso che c’era una nostra propensione per la montagna, possibilmente non assalita dal turismo di massa, tuttavia non troppo distante dalla nostra residenza di Napoli, ci prospettò l’ipotesi che avremmo potuto trovare qualcosa che si attagliava alle nostre richieste proprio nei dintorni.
Egli mise in evidenza che c’era un piccolo comune, Filignano, non lontano, appunto, non troppo in alto - ad una altezza di circa cinquecento metri - con un’aria molto più fine e fresca di quella di Venafro, ed era meta degli stessi venafrani, ogni volta che l’estate faceva sentire tutto il peso della sua afa nella pianura sottostante.
La cosa non fece grande presa sulla nostra attenzione; per educazione ci congedammo ringraziando il proprietario del bar, con l’impegno di rivederci al prossimo passaggio, per sapere qualcosa di più preciso sul luogo e su eventuali possibilità di prendere una decisione.
E così fu: in capo a una settimana, ci ritrovammo con il proprietario del bar, il quale si offrì di accompagnarci sul posto per vedere una casa.
- Siete capitati proprio a buon proposito – disse il nostro accompagnatore, quando ci mettemmo in cammino.
- Dal momento che abbiamo sentito il nome del comune, Filignano – dissi io – mi sono ricordato di avere visto spesso i cartelli con l’indicazione per Filignano, sulla strada che porta a Roccaraso, tra Roccaravindola e la località “la Corte”, sotto Montaquila…
- Per chi viene da Napoli, come voi – precisò il signore del bar – si fa prima a salire a Filignano, senza giungere a Roccaravindola e a”la Corte”, sotto Montaquila. La strada più breve è questa che fate ora con me. Ora, una volta lasciata Venafro su questa via “Colonia Giulia”, seguiamo viale San Nicandro; viene ora  la chiesa con il convento dei Cappuccini, dove è stato per un po’, a suo tempo, anche Padre Pio - tra ottobre e novembre del 1911 -; dopo la curva a “doppia esse”,  svoltiamo a sinistra, subito sul ponticello del torrente Rava, e andiamo per Pozzilli, sempre su. Neanche dieci chilometri e siamo arrivati a Filignano.
Effettivamente, lasciato il fondovalle venafrano, solcato dal Volturno e qualche altro bacino a regime torrentizio, da quota metri 222 s.l.m., attraversato l’incrocio con il comune di Pozzilli, incominciammo a salire le varie rampe serpeggianti tra un costone e l’altro, tra una densa vegetazione boscosa, smaltata di vivido verde, ci ritrovammo, in poco più di dieci o quindici minuti, a Filignano, a circa 460 metri s.l.m. Il primo e piccolo nucleo di case che ci accolse in quella radiosa mattinata fu il borgo Bottazzella.
 
 Da quel punto di arrivo, fatta la curva dove è piantata la croce, a ricordo di una visita missionaria, davanti ad una cappella, visibile, a mezza altezza, dal ciglio della strada degradante verso la valle sottostante, si aprì lo scenario di una meravigliosa conca circondata da sparsi nuclei di case, di fronte, a destra e a sinistra. In particolare da questo lato, si intravedeva il coronamento delle cime delle Mainarde, innevate ancora a primavera; sotto, ci veniva spiegato dall’accompagnatore, c’era il “centro storico” di Filignano.
 Completando la discesa da quel punto di osservazione, dopo una curva e un paio di svolte, in breve, fummo nella piazzetta in cui si notano tre punti che qualificavano inequivocabilmente il centro del paese: la Chiesa parrocchiale, la sede del Municipio e un grande tiglio. Dalla maestosa presenza di quest’albero, che distende i suoi fronzuti rami da una costruzione all’altra della piazzetta, si intuisce subito che si è di fronte ad una creatura verosimilmente plurisecolare.
Fermammo l’auto dinanzi all’albero, per proseguire poi a piedi, come  ci disse il nostro accompagnatore. Notammo subito che tra l’albero e la chiesa c’era una rilevante pendenza, talché continuammo a salire sia per visitare un attimo la chiesa, sia per intraprendere la strada, sempre in salita, che dal lato sinistro della stessa chiesa portava su, verso un gruppo di case.
- Sappiamo - chiesi - qual è la casa che si vende?
- Io so che c’è più di una casa in vendita; ce n’è una, in particolare, di cui conosco un po’ la storia.
La proprietaria della casa si chiama Lisetta, emigrata in Francia, negli anni sessanta, forse, per ragioni di lavoro, come tanti altri di quel territorio. Lisetta ha lasciato a Venafro una sorella, con la procura a vendere alcuni suoi beni, tra i quali c’è, appunto, una casa e qualche terreno a Filignano. Ora si tratta di rintracciare qualcuno che ci dica esattamente dov’è questa casa.
- Va bene; ma noi non conosciamo nessuno del posto…
- A questo posso pensare io; per questo vi ho accompagnato proprio sul posto: vi presento qualcuno che, per essere nato e vissuto sempre a Filignano, conosce bene le persone e le situazioni, insomma, dove si trova la casa di Lisetta e come stanno le cose.
Il riferimento del nostro accompagnatore alla proprietaria della casa emigrata dopo il secondo conflitto mondiale mi fece mentalmente  rivedere il quadro alquanto triste dell’esodo di tanti gruppi familiari nel secondo dopoguerra.
 Non solo da Filignano, ma da tanti altri paesi di quel territorio lo spopolamento e il conseguente abbandono di case e poderi fu, per un verso, un fenomeno forzato e triste; per un altro verso, una soluzione che si è rivelata utile per salvare numerose famiglie dalla rovinosa mancanza di lavoro se non dalla fame.
Nelle regioni più deboli, come quella molisana, tardò a farsi vedere il boom economico, quando invece si profilava già da altre parti d’Italia, e questo anche per l’assenza delle risorse umane giovani, emigrate e sparse in Europa o anche in paesi d’oltreoceano. Buona parte del Molise, stando alle statistiche annualmente pubblicate, si presentava come una regione popolata per la maggior parte da anziani e pensionati, verosimilmente fino al pieno degli anni ottanta.
In ogni caso, benché la vista di tanti paesi intorno con case abbandonate e rovinate provocasse una stretta al cuore, emergeva tuttavia nell’animo la speranza che qualcosa di nuovo potesse rimuovere lo stato di inerzia e di abbandono di tante rovine lasciate dagli scontri disastrosi della guerra. In definitiva, tale quadro non scoraggiò affatto chi, come noi, andava lì non per fare commercio o impresa o affari, bensì per trovare una residenza di tutto riposo, e non troppo distante dalla residenza anagrafica.
Fatti pochi passi in salita dalla chiesa, imboccata una breve rampa ancora più ripida, il nostro accompagnatore chiamò la persona cui intendeva rivolgersi, facendo due o tre volte il nome di «Mimì?»
Era forse ora di pranzo, il sole era allo zenit, l’aria abbastanza fresca, il silenzio dominava su tutto.
Il nostro accompagnatore salì ancora alcuni gradini, accostandosi ancora di più alla casa, chiamando ancora «Mimì?». Dopo qualche istante si affacciò dal balcone sovrastante l’uscio di casa l’uomo che rispose al nostro. Dopo ancora pochi istanti, scese verso di noi questo signore, in giacca, camicia e cravatta, forse sulla cinquantina, il quale salutò con cortesia tutti e chiese di che cosa avessimo bisogno.
- Scusami per il disturbo, Mimì - disse il nostro accompagnatore -, vorrei solo chiederti se puoi dare qualche indicazione a questi amici. Vengono da Napoli e vorrebbero vedere la casa di Lisetta, quella che se ne andò in Francia…
- Ah, sì, la so, la casa che sta qui, a Piricocco, in via San Salvatore. Subito, vi faccio vedere dov’è.
In questo testo noi trascriviamo “Piricocco”, italianizzando la parola che i filignanesi nel loro idioma scrivono e pronunciano diversamente, come appare chiaramente anche dalla scritta sulla targa marmorea della strada denominata «VIA SAN SALVATORE - C. STORICO – PRÊCOQ»
Ci fu spiegato intanto che Piricocco è il nome che indica un gruppo di case, in parte ancora abitate, in parte abbandonate, poste a mezza altezza del centro antico, sovrastate solo dal culmine più elevato di Monte Imperatore.
Le prime indicazioni fornite rispondevano alla realtà che ci trovammo di fronte, quando, al termine della salita, svoltammo in un vicoletto stretto tra una casa abbandonata, sul cui uscio era scritto, forse da mano burlesca “50 centesimi” e un’altra casa, molto più grande, che faceva angolo con il tratto di strada che continuava con una serie di gradini lungo un lato della casa che ci interessava. Su quel viottolo, proprio davanti la casa che avremmo poi scelto, vedemmo i muli trasportare lentamente sacchi di materiale edilizio, in direzione di Monte Imperatore: evidentemente era quello un passaggio obbligato per trasporti del genere. Non era stata costruita ancora la strada carrabile che avrebbe portato fin lassù tutto con gli autoveicoli, come, appunto, avviene oggi…(continua...)  
 * * *
 Sono passati quasi trentaquattro anni da quando seguiamo i cambiamenti delle stagioni, a Filignano, luogo nel quale ci imbattemmo per caso, ma che divenne subito una residenza di elezione: fu – è il caso di dire – amore a prima vista.
Come per tanti amori a prima vista – duole dirlo ora -,  col sopravvenire, in mezzo a momenti felici, di eventi non felici e non prevedibili, con le contrarietà della vita non immaginabili prima, può succedere pure che  avvenga una modificazione dello stato d’animo inizialmente entusiastico, avuto di sicuro nel momento della scelta.
Infatti, perdere la madre, nel giro di un anno da quella decisione, e la propria giovane moglie sei mesi dopo, rimanendo con due figli ancora bambini, sembrò tutto un solo prolungato evento devastante e stravolgente. Con l’aggravante che nella scelta di Filignano era stata determinante la condivisione proprio della moglie, la quale venne meno improvvisamente e inaspettatamente.
Dopo qualche anno, il sisma del 7 maggio del 1984 determinò prima la "via Crucis" della ricostruzione, iniziata sei anni dopo l’evento e durata circa cinque anni, tra incertezze e delusioni, con esborsi che non ritenevamo giusti, ma che erano necessari per completare l’opera inceppata.
Eppure, nonostante tutto, Filignano è rimasta poi qualcosa di caro, che ci appartiene, perché rappresenta una rilevante parte delle nostre esperienze umane, fatte, come si è detto, di eventi felici e non felici, di conoscenza di ambienti gradevoli o non gradevoli, come è dappertutto. Parlando specificamente di persone, ne abbiamo conosciute di simpatiche o non simpatiche, che ci hanno aiutato o creato problemi. Noi le abbiamo tenute tutte, comunque, sempre nella nostra considerazione di solidarietà umana, civile e, se si vuole, cristiana, ricambiando solo in bene.
 Restiamo piuttosto in debito morale con persone che disinteressatamente ci sono state vicine, soprattutto nei nostri momenti tristi, come diremo appresso.
* * *
Il 5 dicembre del 2013, all’età di 85 anni, è finito il signor Domenico Di Bona, per noi e per tutti gli amici, Mimì.
Martedì 7 gennaio 2014, in occasione del trigesimo, si celebra la Santa Messa nella Chiesa parrocchiale intitolata all’Immacolata Concezione in Filignano, e noi non possiamo mancare per riflettere ancora sul rapporto di amicizia e di solidarietà che abbiamo vissuto grazie all’uomo, alla sua consorte superstite e ai suoi superstiti figli.
Alla notizia della sua dipartita, io l’ho rivisto immediatamente in quella sua apparizione inaspettata del 27 gennaio del 1982, fuori la Chiesa della Madonna del Buon Consiglio, in via Girolamo Santacroce, a Napoli. “Professore, professore!’”, gridava, agitando le braccia nella calca della folla. Io non capivo più nulla, ero stravolto, ancora incredulo per quanto era avvenuto da un momento all’altro. Non mi rendevo conto che egli era venuto da Filignano, non so come, ai funerali di mia moglie!
Ci rivedemmo quando feci ritorno a Filignano con i due bambini. I vicini sfilarono silenziosi dinanzi al portoncino di casa e mi fecero le condoglianze; io e ancor più i due bimbi, eravamo ancora attoniti. Mimì pure passò dinanzi all’uscio, più di una volta. Egli aveva già deciso, in cuor suo, che non mi avrebbe abbandonato.
Incominciò allora una forma di accoglienza particolare, disinteressata e non facile da attuare, come lo è quando la si fa ad un amico che non è in auge, quando la si fa a un amico che non sta bene e non può ricambiare per niente.
Dalla parte nostra c’erano, sì, i familiari, ma non c’era, sempre da parte nostra, l’animo di restare con loro e riversare altro dolore su di loro. La perdita di mia madre, sei mesi prima, aveva già determinato uno scompaginamento nella nostra famiglia. I suoceri ed i cognati, che pure stavano precariamente con noi, accolti nella nostra dimora, per i danneggiamenti subiti dalle costruzioni antiche a Napoli, a seguito del sisma del 23 novembre del 1980, erano anch’essi viepiù stravolti per la indicibile perdita familiare subita. Filignano apparve come un rifugio dallo strascico della tragedia. Ma, da solo, lontano dai familiari e da alcuni affettuosi amici e colleghi, che pure si protendevano per dare una mano, sapevo che avrei potuto fare ben poco per me e per i miei due figlioli.  
Non avrei potuto fare niente, da solo, a Filignano, se non avessi trovato la porta aperta di un nucleo familiare solidale: a Mimì dobbiamo l’indirizzo che diede a quest’azione di accoglienza; alla moglie Giovanna, la capacità di organizzarsi e fare la sua parte di buona madre di famiglia, in aggiunta al suo lavoro di scuola; ai due figli, Mauro e Bruno, la pazienza di alimentare un clima di familiarità, organizzando in casa anche qualche gioco per i due giovanissimi ospiti.
Chi scrive, prima di fare il dirigente del Miur, alias l’Ispettore nel suo ultimo segmento della carriera dirigenziale, ha insegnato e poi ha fatto il preside. Erano quelle le funzioni che avevo inizialmente, proprio quando ero a Filignano, all’indomani della perdita della prima moglie. Per tali qualifiche, adottando il lavoro, oltre che come mezzo di sostentamento, anche come medicina per attenuare i pensieri non belli della tragedia, scelsi di stare lontano dalla residenza di Napoli per i periodi delle sessioni degli esami di Stato. Sicché chiesi ed ottenni, per alcuni anni consecutivamente, gli istituti superiori della provincia di Isernia. Fui esaminatore e Presidente di Commissioni nei licei di Venafro, Frosolone e Isernia. Nella sola Isernia, in tre anni di seguito, feci l’esperienza dell’istituto magistrale, del liceo scientifico e del classico.
Ora, mi ha fatto ricordare quelle esperienze personali, in particolare quella di Presidente esaminatore del liceo classico “Onorato Fascitelli” di Isernia, anche la citazione del vecchio amico di Mimì, nel giorno dei funerali, in chiesa, quando rinvangò con trasporto ed affetto – quasi come se volesse svegliarlo dal feretro - il ricordo della loro colleganza di studi ginnasiali fatti, appunto, in quel liceo “Fascitelli” di Isernia.
Tutte quelle esperienze ci hanno creato un pegno morale con Mimì e la sua famiglia.
Durante la sessione d’esame - che durava, in genere, un mese -, i figli, a ora di pranzo, erano quasi sempre invitati con cortese e gentile premura a passare dalla casa nostra a quella di Mimì. I figli di Mimì, alquanto più grandi d’età, con discrezione, cercavano di intrattenere i miei; la madre si sobbarcava l’onere di preparare il desinare per il marito, per i suoi e per i miei figli. Ma non basta. Al mio ritorno, un ulteriore invito ci induceva a stare con loro e consumare con loro il pasto.
Non di rado, la sera, ci si ritrovava insieme, talvolta a cena, altre volte dopo cena, con la solita, valida e credibile motivazione di Mimì: “Che cosa ci fai qui da solo? A sera ci si intristisce a stare soli…e poi vengono i cattivi pensieri! La solitudine è una brutta bestia: stammi ad ascoltare: portati i figli a casa, da me!”. Era questa una cordialità senza tentennamenti, autentica, decisa; si sentiva che non erano parole dette per pura formalità, anzi erano convincenti perché si sentiva che erano cortesemente energiche.
Dar da mangiare agli affamati; dar da bere agli assetati; vestire gli ignudi…
Noi non eravamo indigenti in senso materiale, ma stavamo peggio, dentro. Avemmo allora quel sostegno della vicinanza che, se proviene da un vero amico, disinteressato - ancorché non un familiare, che è certamente più diretto e caloroso - può ugualmente aiutare a cercare e trovare nel profondo le leve necessarie per sollevare lo spirito avvilito dalla disgrazia. E noi, soprattutto, quella vicinanza l’avemmo prima di doverla chiedere!
Grazie, Mimì, a te e alla tua famiglia!
F. R.

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POST. 09.01.2013 

 

















È avvenuto che, di recente, un giorno di dicembre mite e soleggiato, mi sono ritrovato a Mirabella Eclano, l’antica Aeclanum, nei cui dintorni fui destinato per i primi incarichi di insegnamento nella scuola secondaria sul finire degli anni Sessanta.

Il partire, a quel tempo, da Napoli, a prima mattina, per recarmi in provincia di Avellino, a Passo di Mirabella, mi faceva sentire una vaga attrazione per una località, la quale, ancorché lontana e poco frequentata, mi ispirava un senso di familiarità. Infatti mi sentivo quasi rassicurato al solo leggere sulle carte e sulle indicazioni stradali i nomi di paesi come, ad esempio, Montemiletto, Chiusano San Domenico, Montemarano, Lapio, Paternopoli ed altri ancora…

Si trattava, in realtà, di luoghi che avevo sentito nominare, quando ero piccolo, nei racconti fatti dal nonno
 e dagli zii, quando rinvangavano episodi della vita degli antenati; il più dovizioso di notizie su luoghi e personaggi dei tempi andati era lo zio Raffaele, divenuto, con la dipartita del nonno, il più anziano in famiglia e, quindi, il depositario più attendibile delle memorie familiari. Da lui appresi molte storie di persone di altra epoca e di luoghi donde, in parte, si era mossa la famiglia paterna, come, ad esempio, Sant’Angelo all’Esca, dove tuttora si conserva memoria di Monsignor Reppucci, al quale sono intitolate una via importante e una scuola.

Purtroppo, la rassicurante sensazione di familiarità appena detta, nonostante l’accoglienza cortese delle persone di scuola e dell’ambiente circostante, fu di breve durata; quei luoghi, visti e toccati dal vero, non si amalgamavano con le immagini idilliache e suggestive create dalla tradizione orale familiare e dalla cultura cartacea: evidentemente quella familiarità non era sorretta dall’esperienza reale di un precedente vissuto personale sul posto. Forse, quella volta, fu solo un istintivo “richiamo della foresta”…

  Di fatto, scoraggiarono quel “ritorno in patria” sia i tempi di percorrenza troppo imprevedibili, per potere assicurare la puntuale presenza in aula alle otto del mattino, sia il clima già freddo tra l’autunno e l’inverno, divenuto anzitempo nevoso, quell’anno.

Sembrava una scommessa il dovere sfidare con il quotidiano pendolarismo un percorso impegnativo, fatto con una piccola utilitaria – una cinquecento del 1965 - poco avvezza a salire e scendere sbrigativamente sulle obbligate vie, carrozzabili, sì, ma alquanto gibbose, in sintonia con lo scenario agreste e collinare, spesso ghiacciato, che andava poi sommato all’impegno del percorso autostradale!

Non nego che, pur essendo nato praticamente vicino al mare, per non dire in riva al mare di Napoli, ho sempre sentito il fascino della verde Irpinia. Infatti, nelle stagioni più favorevoli, come la primavera e l’estate, volentieri ho scorrazzato dal Partenio - ben noto e frequentato anche per il Santuario di Montevergine - al Terminio, al Cervialto, al Montagnone, al Lago Laceno, riprendendo spesso il corso del fiume Calore, per raggiungere infine Sant’Angelo all’Esca. Ma erano passeggiate di fine settimana, con la fidanzata, prima, con la moglie e i figli piccoli, poi, fuori da ogni obbligo di lavoro e con il tempo bello.

In definitiva, visto l’avvio un po’ “periglioso” di quell’anno scolastico di fine anni Sessanta, si rivelò più saggia la scelta di rientrare a Napoli, dove, avendo maggiore disponibilità di tempo per lo studio, in breve, conquistai la stabilità del “ruolo” nazionale, conseguito con i concorsi a cattedre, che, per le scuole superiori, erano espletati a Roma.

* * *
A fare una puntata in Irpinia, nei primi giorni dello scorso dicembre, mi ha invitato un collega di insegnamento della prima metà degli anni Settanta, la cui origine paterna è, appunto, di Mirabella. È stato un accompagnamento, dunque, utile per farci ricalcare le tracce di percorsi aviti, in parte comuni, nonché momenti di esperienza professionale comuni, connotati da un giovanile e  ben determinato spirito di iniziativa.

Con l’amico ci si è ritrovati ora, a fine carriera, ricordando qualche anno di docenza fatto insieme, nella prima metà degli anni Settanta, al “Genovesi”, il liceo classico di piazza del Gesù, a Napoli. Quella esperienza di lavoro fu vissuta da noi, giovani docenti, tra i colpi di coda delle agitazioni sessantottesche. Era l’anno scolastico 1973-74.

Lungi dal farci “espropriare” della cattedra, ci impegnammo - ancora di più di quanto si pensasse - nel confrontarci con gli studenti su inediti programmi didattico-culturali, non tanto nelle classi terminali - che si preoccupavano in qualche modo degli esami finali -, quanto in quelle iniziali o intermedie.

Docenti giovani, di “belle speranze”, come si suole dire, noi attuammo biblioteche di classe e  lezioni “partecipate”, con il serio impegno assunto dalle studentesse e dagli studenti.

Sempre per ottenere il maggiore coinvolgimento possibile degli alunni, in qualche classe l’interrogazione fu trasformata in una sorta di “focus group” ante litteram, quasi che ci fosse qualcosa da decidere al di là dei programmi scolastici. L’esplicitazione di idee e commenti da parte di gruppi di lettura doveva far sentire la responsabilità di “decidere” il giudizio critico su una determinata tematica o problematica storico-sociale o su opere e personaggi storico-letterari.

È onesto dire che insieme con gli alunni anche i docenti furono impegnati ad inseguire le letture giovanili proiettate sul Novecento, sacrificando, per esempio, la formazione di filologia classica a vantaggio di autori più recenti e forse meno approfonditi. Il tutto fu possibile anche grazie all’esplosione dei libri tascabili, che andavano sempre più diffondendosi a prezzi popolari sul fronte della saggistica e della narrativa.

In comune con il suddetto ex collega, con il quale ho fatto la puntata a Mirabella Eclano, oltre all’esperienza di insegnamento già ricordata, ci fu, nella seconda metà degli anni Settanta, la condivisione di un’iniziativa editoriale, la quale tenne in vita, tra il 1975 e il 1977, la rivista “Colloqui di Storia e Letteratura”, grazie al sostegno di un agente editoriale, titolare allora di una libreria, nelle immediate adiacenze di piazza del Gesù, a Napoli.

In tale iniziativa ci fu il conforto di una mia precedente – sia pur modesta - esperienza editoriale, patrocinata da un famoso libraio-editore napoletano, anche lui attivo nei pressi di piazza del Gesù. Egli, dieci anni prima, nel 1965, mi fece pubblicare Echi, un opuscolo di traduzioni dal latino, in versi napoletani, di alcuni componimenti di Catullo e Orazio, che erano stati preventivamente esaminati ed approvati dal prof. Antonio Altamura, già preside del liceo classico “G.B. Vico” di Napoli, dialettologo e umanista completo.            

I percorsi professionali di noi due hanno seguito scelte diverse negli anni, annullando quasi del tutto la frequentazione iniziale, fondata sulla comunanza di studi e iniziative culturali di cui si è detto.

Il collega ha avuto la virtuosa e singolare costanza di non abbandonare fino al pensionamento il liceo dove entrò di prima nomina, dedicandosi alla pubblicazione di testi scolastici di latino e greco, divenendo, negli ultimi tempi, anche esperto delle nuove tecnologie entrate inevitabilmente nella scuola.

Per quel che mi riguarda, agli inizi degli anni Ottanta, ho scelto di lasciare la docenza per fare il preside, e poi il dirigente tecnico, alias, l’ispettore del MIUR. Con quest’ultimo segmento della carriera sono stato centrifugato da Roma in tutta Italia e, talvolta anche fuori d’Italia. Tutto ciò non mi ha fatto trascurare una sia pur modesta attività di pubblicista e la collaborazione con qualche periodico.

Sia per il collega, sia per me, ci sono state tante esperienze comuni, con caratteristiche diverse, ma essenzialmente rivolte al pianeta scuola, alla cultura dell’istruzione e della formazione.

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 La visita di Mirabella, avvenuta il 6 dicembre scorso, ha riguardato il centro abitato, tenuto in maniera dignitosa e bene organizzata, di gran lunga diverso dagli anni precedenti, stravolti per troppo tempo dal rovinoso terremoto dell’Irpinia del 1980. In particolare, ci siamo soffermati sul Museo di Arte Sacra, la cui collocazione potrebbe sfuggire al passaggio inconsapevole della gente che non fosse del posto. Chi passa frettolosamente dinanzi alla Parrocchia di Santa Maria Maggiore, senza entrarvi, non sa di perdersi il godimento di tesori di suggestiva arte sacra, esposti in forma museale e quindi resi fruibili pienamente dal pubblico interessato.

In un sommario e rapidissimo ricordo di ciò che abbiamo visto, passano nella memoria le enormi campane plurisecolari, che si possono toccare con mano, i messali antichi, i lezionari, i volumi di vari tempi – che interessano non solo la storia sacra o la storia di Mirabella, bensì personaggi, fatti e società passati attraverso le varie congiunture storiche dell’Italia meridionale.

Appena si entra colpiscono subito i suggestivi dipinti della volta lignea dell’unica navata e, in fondo, sull’altar maggiore, il grande Crocifisso ligneo del XII secolo, i cui tratti sono scolpiti con l'impronta robusta della mano normanna. Non si possono ignorare il busto di San Prisco e l’urna marmorea e l’organo settecentesco, restaurato nella sua delicata e leggera struttura. Addentrandoci nei locali attigui alla chiesa, accediamo al Museo di Arte Sacra, dove sono esposti paramenti, arredi e una discreta varietà di oggetti sacri; apprezzabile e sempre suggestiva risulta infine calcare l’antica pavimentazione lasciata in terra, illuminata e protetta da lastre vitree trasparenti.

Una recente innovazione: il 10 aprile del 2011, come è possibile apprendere da varie fonti, anche in rete, (http://www.irpinianews.it/CulturaEventi/news/?news=85193), la Chiesa di Santa Maria Maggiore è stata presentata al pubblico con una rivisitazione “cromatica” che ha messo in risalto sia la struttura architettonica, sia il contenuto visibile e tangibile del tempio, in virtù di un progetto attuato anche per altre strutture di interesse artistico e storico, in altre parti d’Italia.


Nella stessa sede abbiamo appreso dell’apprezzabile attività del “circuito museale” di Mirabella Eclano – vedere il sito www.sistemamuseo.it . In esso sono esposti i “quadri” di cartapesta, di fattura ottocentesca, che rappresentano personaggi addolorati, che seguivano il percorso e le tappe della via Crucis (Museo dei Misteri), e richiamano le drammatiche rappresentazioni, ripetute dal vivo in altri luoghi, come, ad esempio, a Procida, il venerdì Santo.

Non meno apprezzabile è la mostra dei cosiddetti “sette registri” (Museo del carro), ossia i reperti di lavorazione della paglia, costituiti da pannelli e supporti della struttura del “carro”.  

Il “Carro” di Mirabella è l’emblema – ben noto, proveniente da tradizioni antiche, pagane e cristiane – di un’affermazione forte delle attività umane, svettante verso l’alto in forma di obelisco–, affine ai “gigli di Nola o di Barra, per rimanere nell’ambito delle tradizioni campane. Con i “gigli” la differenza sta nel fatto che, nei luoghi appena citati, tali impalcature sono caricate sulle spalle di squadre di uomini, che si muovono al passo cadenzato di marce, di musiche sacre e profane.  Il carro di Mirabella è mosso, per un certo percorso del paese, su un carro che ha il traino accoppiato per i buoi. Bianchi o pezzati, essi ci ricordano i vecchi compagni di fatica nelle campagne della Campania felix di una volta! Ci siamo riservati una successiva puntata sul sito archeologico di Aeclanum, che merita altra particolare attenzione con relativi approfondimenti.





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